In un editoriale di qualche mese fa Beppe Cottafavi commentava su Domani il putiferio seguito alla Ferragni-testimonial-degli-Uffizi.
Ma esiste una cultura di qualità in opposizione ad una cultura “popolare” nell’accezione dispregiativa del termine?
Abbiamo davvero bisogno di categorie (tifoserie) o rischiamo in questo modo di allontanare anche possibili fruitori che diversamente non si avvicinerebbero mai ad un museo o non considererebbero una serata a teatro nemmeno gratis?
Conformismo, moralismo, nevrosi-da-canone-estetico, ismi vari ed eventuali che cullano privilegi e ipocrisie. Tutto quello che è mainstream è da deprecare. Quello che è della massa non può essere dell’intellettuale tutto d’un pezzo, quello vero e severo.
Ma la vita reale dove sta? Bisogna forse sentirsi in colpa a provare delle emozioni, ad ascoltare la pancia e il cuore?
Non intendo dire che l’avvicinamento alla cultura debba essere esageratamente naïf. Talvolta il processo di osservazione necessita di mediazioni: è evidente che conoscere il contesto storico o il sistema di riferimento di una determinata opera possa favorirne la comprensione, ma è davvero una cognizione esatta a regalarci l’emozione? Siamo sicuri che siano paradigmi e norme a parlare al nostro bisogno di bellezza? E’ veramente necessario conoscere tutti i dettagli di un metodo per essere travolti dal calore che emana e riaccende nostalgie, souvenir dal profondo? Perché performativa non è solo l’azione dell’artista, ma plasmano l’opera anche i moti interiori di chi osserva: i gesti dell’anima che contribuiscono alla creazione di quello specifico momento.
Sul concetto di arte democratica potremmo discutere per ore con il rischio di arenarci su polarità opposte e troppo semplificatorie. Perché non considerare allora la possibilità che l’esperienza artistica (sia quella del performer, sia quella dello spettatore) possa essere un grande cantiere di educazione al pensiero critico, all’ascolto e all’espressione?
Sono convinta che sia indispensabile trovare nuove soluzioni per aprire a tutti la possibilità di fruire della cultura e di fare cultura: di poter scegliere cosa amare e di potersi esprimere al di là di norme stabilite in salotti elitisti e convenzionali.
Come avvertiva Vonnegut in un discorso agli studenti della State University di New York nel 1972, la cultura rischia di giocare “un ruolo insidioso nelle dinamiche del conflitto di classe”, mentre dovrebbe essere un bene comune per tutti.
Perché la cultura ha un potere trasformativo e può aiutarci ad esplorare e comprendere la complessità del contemporaneo, oltre ad immaginare scenari inclusivi e azioni di cambiamento per il presente.